Da qualche tempo, sui media, non si fa altro che parlare delle migliaia di assunzioni nel pubblico impiego che partiranno a breve, a causa dello sblocco del turnover, con l’ambizioso obiettivo di modernizzare la nostra burocrazia. E, tuttavia, non c’è bisogno di essere addetti ai lavori per nutrire il legittimo sospetto che le cose non andranno esattamente così.
È evidente, infatti, che non può bastare assumere nuovi dipendenti pubblici per migliorare l’efficienza delle Pubbliche Amministrazioni. E neanche basta che i neo-dipendenti siano migliaia, giovani e tutti laureati, magari con un dottorato in tasca.
Certo, nuove immissioni nel personale delle PA, notoriamente “anziano” di età e di servizio, è una condizione indispensabile per quella riforma che l’Unione Europea ci chiede come pre-condizione per accedere ai fondi del Next Generation EU. Ma bisogna fare molta attenzione a non sbagliare l’ordine cronologico dei passi da fare.
Assumere non può essere il primo passo, se non preceduto, o almeno accompagnato, da un’azione di miglioramento della capacità amministrativa e finanziaria delle Amministrazioni destinatarie dei vincitori dei prossimi concorsi. Altrimenti, il rischio è che molti giovani laureati finiscano per venire dirottati a fare fotocopie, senza alcuna realistica possibilità di riuscire a esprimere le proprie competenze, e con la prevedibile conseguenza di ritrovarsi, in breve tempo, completamente demotivati.
Serve, dunque, sapere innanzitutto chi assumere, con quali profili e per quali ruoli. Il che non è affatto scontato. A oggi, infatti, dal Conto annuale del personale, che tutte le PA devono redigere, è ricavabile il dato sul numero di dipendenti laureati, ma non quello su quali sono i tipi di lauree possedute: ad esempio, se di impronta giuridico-umanistica o tecnico-scientifica. Va da sé, infatti, che assumere un giurista dove serve un ingegnere non aiuterebbe l’Amministrazione beneficiaria.
Soprattutto, poi, serve sapere se quest’ultima, anche dotandola di un ingegnere, garantisca o meno la capacità di gestirlo bene. E anche questo non è affatto scontato. A oggi, infatti, non sappiamo quante e quali siano le Regioni, o i Comuni, che dimostrano di saper amministrare il personale. Quale è, per esempio, la spesa pro-capite per il personale dei Comuni e quale l’incidenza sulla loro spesa corrente? Quali Regioni usano i premi annuali per incentivare i dirigenti effettivamente meritevoli, come, per esempio, quello che in una Regione non proprio performante come l’Abruzzo redige la migliore rendicontazione del patrimonio immobiliare pubblico oggi disponibile tra le PA italiane? Una rendicontazione non come adempimento formale, ma come accountability verso i cittadini.
Il legislatore, con il cosiddetto decreto trasparenza del 2013, ha reso possibile conoscere quei dati, la cui pubblicazione è obbligatoria sui siti web di tutte le Amministrazioni. E, tuttavia, nessuno sembra usarli per mappare la capacità gestionale del personale pubblico.
Come Fondazione Etica lo stiamo facendo da tempo con il Rating Pubblico, e lo mettiamo a disposizione di tutti, in primis dei ministri Brunetta e Carfagna, che stanno lavorando sul piano di assunzioni. È una mappatura che serve ora, prima di assumere, non dopo, se non vogliamo rischiare un nuovo spreco di risorse.
I dati della mappatura del Rating Pubblico sulle Regioni dimostrano che molti luoghi comuni sui dipendenti pubblici non hanno motivo di esistere. Il primo: non è vero che le Regioni del Nord gestiscono meglio il personale rispetto a quelle del Sud: se è vero, infatti, che la valutazione assegna i primi 9 posti della graduatoria a Regioni del Nord e del Centro, è vero anche gli ultimi posti vedono anche diverse Regioni del Nord e a Statuto Speciale, dalla Valle d’Aosta alla Friuli Venezia Giulia alle due Province Autonome di Trento e Bolzano.
Si dice, poi, che i dipendenti pubblici costino troppo, soprattutto nelle Amministrazioni del Sud, ma se si guarda al costo del personale pubblico che ogni cittadino deve sostenere, il più alto appartiene a una Regione del Nord, e non del Sud, come la Valle d’Aosta: oltre 1.800 euro pro-capite. La seguono altre tre Regioni del Nord: le due Province Autonome di Bolzano e di Trento (rispettivamente con un costo pro-capite di 237 e 181 euro) e il Friuli Venezia Giulia (155 euro). Poiché la quinta Regione con il maggior costo pro-capite del personale regionale risulta la Sicilia, al Sud, la variabile che sembra incidere sull’indicatore non è quella Nord/Sud, ma quella Statuto Ordinario/Statuto Speciale.
La collocazione geografica risulta incidere solo parzialmente anche sull’indicatore che misura l’incidenza della spesa per il personale sul totale delle spese correnti. Da un lato, infatti, è una Regione del Nord come la Lombardia a presentare un’incidenza al di sotto dell’1%, seguita da un’altra Regione del Nord come il Veneto (1,2%). Dall’altro, anche sul fronte opposto del ranking si trova una Regione del Nord: la Valle d’Aosta presenta una spesa per il personale che incide su quella complessiva corrente per oltre il 20%, collocandosi all’ultimo posto. In generale si può dire che una Regione performante non è necessariamente quella che spende meno per il personale.
I numeri rilevati sembrano sfatare il luogo comune secondo cui le Regioni spendono molto per le consulenze: il loro costo medio in rapporto alla spesa totale per il personale è dello 0,6%. Un altro risultato significativo è che a spendere di più per consulenti sono enti performanti come la Toscana (1,3%) e la P.A. di Bolzano (4,8%). Ciò consente di affermare che la spesa per consulenze non è automaticamente sinonimo di sprechi di denaro pubblico
L’età media dei dipendenti regionali si attesta a 54 anni. Dunque, un’età media elevata, che arriva a sfiorare i 57 anni in Basilicata e si attesta sui 51 in Piemonte.
Un altro luogo comune sui dipendenti pubblici riguarda l’alto tasso di assenteismo soprattutto al Sud: in questo caso i risultati dell’analisi sembrano confermarlo. L’indicatore, infatti, rileva che il maggior numero di giorni medi di malattia nell’anno appartiene a due Regioni del Sud: Sicilia e Campania, rispettivamente con 12,3 e 11,4 giorni.
Si dice, poi, che i dirigenti siano troppi, soprattutto nelle Regioni meno efficienti, e quindi al Sud. I numeri dell’analisi sembrano dire altro anche in questo caso. Se è vero, infatti, che la percentuale più alta di dirigenti sui dipendenti appartiene a una Regione poco performante del Sud come la Sicilia (8,8%), è vero anche che la seconda percentuale più alta appartiene a una Regione performante del Nord come la Lombardia (6,5%). In generale, una percentuale elevata di dirigenti sul totale del personale di una Regione non costituisce, di per sé, un segnale di sprechi e inefficienze.
Pochi e spesso poco affidabili i dati pubblicati sui premi ai dirigenti: un obbligo normativo disatteso da otto Regioni. Si tratta di Regioni poco virtuose del Sud, come la Calabria e la Campania, ma anche di Regioni virtuose del Nord, come la Toscana e il Friuli Venezia Giulia.
Un indicatore ancora più significativo riguardo ai premi è il grado di differenziazione nella loro distribuzione. La Toscana è la Regione benchmark in questo indicatore, con un grado di differenziazione nella distribuzione dei premi ai dirigenti che la stacca nettamente da tutte le altre. Anche per questo indicatore un terzo delle Regioni non pubblica i dati necessari alla valutazione.
In definitiva, dunque, senza una conoscenza della “macchina” amministrativa, che pure le norme consentono, pensare di afferrare il tema dell’efficienza delle nostre amministrazioni regionali e locali dalla coda dei processi di assunzione può rivelarsi un grave errore.
C’è da sperare che il governo non lo commetta. Siamo ancora in tempo.